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  • Immagine del redattoreElena Franzot

La fiducia e l'accettazione dell'altro in Milton H. Erickson

Aggiornamento: 19 mar 2023

“Scegliere di sopportare” rispetto al “sentirsi obbligati a sopportare”.



Il ragazzo morirà prima di domani mattina”: è il titolo di uno dei racconti didattici di Milton Erickson, dove il protagonista è proprio lui. «Presi il diploma liceale nel giugno del 1919. In agosto sentii tre medici, nell’altra stanza, dire a mia madre: “Il ragazzo morirà prima di domani mattina”. Dato che ero un ragazzo normale, mi sentii offeso. Il nostro medico di campagna aveva fatto venire per consulto due uomini di Chicago, e questi venivano a dire a mia madre: “Il ragazzo morirà prima di domani mattina”. Ero furibondo. Che idea, quella di dire a una madre che suo figlio morirà entro l’indomani mattina! E’ una cosa infame! Poco dopo mia madre venne nella mia stanza, col viso sereno. Dovette pensare che stavo delirando, perché io insistetti che spostasse la grande cassapanca che avevo in camera, girandola in modo diverso vicino al letto. Lei la spostò in un certo modo, e io continuai a fargliela spostare avanti e indietro sino a quando non mi andò bene. La cassapanca mi impediva di vedere fuori dalla finestra, e per nulla al mondo avrei voluto morire senza vedere il tramonto! Ne vidi solo la metà. Rimasi senza conoscenza per tre giorni. Non dissi niente a mia madre. E neanche lei mi disse niente.» Questa è uno dei primi “racconti didattici” in cui mi sono imbattuta quando ebbi l’occasione di leggere, in modo del tutto inaspettato, “La mia voce ti accompagnerà”; ancora oggi, nel ripensare alle parole di questo titolo ho quella stessa sensazione di commossa e profonda distensione di 13 anni fa, come se un padre affidabile che mi vuole bene fosse finalmente giunto per proteggermi, accettarmi ed accompagnarmi nella vita. Questo è il significato che quelle parole hanno per me, un significato a più livelli, come accade in tutti i “racconti didattici” di Milton Erickson. Nel racconto sopra citato diversi sono i suggerimenti indiretti che Erickson vuole comunicare: ci vuole dire di puntare sempre ad una meta concreta nell’immediato futuro, di ritenerci fortunati ad essere vivi e di accettare i nostri limiti, perché tutto quello che possiamo fare è goderci la vita. Il tema dell’accettazione dei limiti si ritrova diverse volte nell’opera di Erickson, per esempio nell’episodio di cui egli riportava il commento che suo padre fece alla morte di sua madre: «E ai funerali di mia madre, mio padre disse: “È stato bello passare settantaquattro anniversari di matrimonio con la stessa persona. Sarebbe stato più bello ancora passarne settantacinque, ma non si può avere tutto dalla vita”.» Non solo: l’accettazione dei propri limiti è pervasiva dell’intera vita di Erickson, vita costellata di innumerevoli problematiche organiche che l’hanno portato a diverse invalidità. Invalidità a cui lui non s’è mai rassegnato ma che è addirittura riuscito a considerare un vantaggio! Com’è possibile considerare la poliomielite e la conseguente paralisi totale come qualcosa di vantaggioso? Partendo dal presupposto che imparare è una delle più grandi forme di divertimento, Erickson ha utilizzato questa sua condizione per osservare le persone e l’ambiente, studiando il comportamento non verbale ed apprendendo cose che di solito sono inconsce. Egli, perciò, è riuscito a tramutare la paralisi in qualcosa di utile, e questo è esattamente ciò che è auspicabile succeda alle persone che vengono in psicoterapia: rendere la condizione di “invalidità” psichica una risorsa per la persona stessa. Questa rottura di schema infonde sia un atteggiamento di accettazione e di sollievo rispetto alla propria condizione, sia una prospettiva positiva per il futuro, poiché blocca il vortice che trascina la persona nella depressione della mancanza di prospettive di cambiamento in positivo e, al contempo, avvia una risalita, seppur faticosa, verso la costruzione della sensazione dell’esistenza di un “senso” fra passato, presente e futuro. Un altro esempio di come Erickson riuscisse a trasmettere un atteggiamento accettante nei confronti del dolore lo si ritrova nella situazione accorsa con il Robert, la quale rappresenta anche un esempio di utilizzazione strategica di ciò che emerge dalla situazione. Robert cadde dalle scale, si spaccò il labbro e un dente superiore gli rientrò nella mascella. Sanguinava e urlava per il dolore e lo spavento. I genitori accorsero e si resero conto che era un caso d'emergenza. Erickson scrive: «Non cercammo di rialzarlo. Invece, quando tirò il fiato per urlare di nuovo, gli dissi rapidamente, semplicemente, con commiserazione ed enfasi: “Fa un male terribile, Robert. Fa un male terribile.” Subito, senza dubbio, mio figlio capì che io sapevo quel che dicevo. Poteva essere d'accordo con me e sapeva che io ero completamente d'accordo non lui. Perciò mi ascoltò rispettosamente perché avevo dimostrato di aver compreso perfettamente la situazione.» Invece di rassicurare il bambino, Erickson procedette in modo tipico: «Allora dissi a Robert: “E continuerà a far male”. Con questa semplice affermazione, io avevo chiarito la sua paura, confermando il suo giudizio con intelligenza e di essere d’accordo con lui, poiché in quel momento egli prevedeva per se stesso un’intera vita di angoscia e sofferenza. fase seguente per lui e per me consistette nel dichiarare, mentre Robert tirava di nuovo il fiato: “E tu vuoi veramente che smetta di farti male”. Ancora una volta eravamo perfettamente d'accordo, e lui si sentì rinsaldato e incoraggiato in tale desiderio. Ed era il suo desiderio, che derivava interamente da lui e costituiva la sua esigenza urgente. Definita in tal modo la situazione, potei allora avanzare una suggestione, con una certa sicurezza che venisse accettata. La suggestione fu: “Forse smetterà di far male tra un pò, tra un minuto o due”. Era una suggestione in piena armonia con le sue esigenze e i suoi desideri e, poichè era qualificata da “forse”, non contraddiceva la sua visione della situazione. Perciò poteva accettare l'idea e incominciare a reagire ad essa.» Poi Erickson passò a un'altra cosa importante: «Robert sapeva che faceva male, che era ferito; vedeva il suo sangue per terra, lo sentiva in bocca, se lo vedeva sulle mani. Eppure, come tutti gli altri esseri umani, anch’egli poteva desiderare nella sua sventura la distinzione narcisistica, insieme al desiderio ancora più ardente della consolazione narcisistica. Nessuno vuole un meschino mal di testa: poichè bisogna sopportarlo, che sia almeno così colossale che solo il sofferente possa sopportarlo. L'orgoglio umano è così bizzarramente buono e consolatore! Perciò l’attenzione di Robert venne diretta doppiamente su due questioni vitali, che per lui avevano un’importanza comprensibile, per mezzo di queste semplici affermazioni: “C’è sangue per terra. È buon sangue, rosso e forte? Guarda bene, mamma. Io credo che lo sia, ma voglio che tu ne sia sicura”. L'esame dimostrò che si trattava di buon sangue forte: ma fu necessario verificare, esaminando ancora sullo sfondo bianco del lavabo. In questo modo il bambino, che aveva smesso di piangere per il dolore e lo spavento, venne ripulito. Quando andò dal dottore per farsi dare i punti, si pose una questione: se gliene avrebbero dati quanti ne avevano dati una volta a sua sorella. La sutura venne praticata senza anestesia su un bambino che partecipava con interesse alla procedura.» Attraverso la sua incredibile empatia ristrutturante, Erickson trasmise questo messaggio “ti ricalco e ti dico questo dolore sarà utile”. Da questo punto di reciproca accettazione della situazione, Erickson fu in grado di utilizzare altri aspetti del problema con il figlio. L’accettazione e la validazione dell’esperienza del problema da parte della persona è infatti il primo aspetto che permette di poter procedere con l’utilizzazione delle risorse che sono meno evidenti nel contesto del problema. In un articolo pubblicato nel 1954 Erickson afferma che “Un vero e proprio obiettivo terapeutico è quello di aiutare il paziente a funzionare nel modo più adeguato e costruttivo possibile, in forza di tali svantaggi interni ed esterni che costituiscono una parte della sua situazione di vita e di bisogni”. L’implicazione di questa affermazione è che l’obiettivo del terapeuta non è quello di risolvere il problema nella sua totalità o tentare di correggere la persona, ma aiutarla a trovare modi costruttivi di funzionamento sulla base della situazione di vita con le risorse disponibili. Il problema è visto come parte della vita e come necessario per il cliente. A tal proposito Erickson, discutendo di un particolare insieme di pazienti, ha dichiarato: “A quanto pare entrambi i pazienti hanno disperatamente bisogno di un disturbo nevrotico, al fine di affrontare le loro situazioni di vita”. Erickson ha riconosciuto perciò che i problemi sono un elemento di vita che in alcuni casi non può essere aggirato e deve essere abbracciato, nel tentativo di aiutare la persona a vivere una vita più funzionale. È anche importante sottolineare che questo non significa che il “problema” è una parte statica della persona o una malattia che deve essere vissuta, ma uno stato reale e importante in cui la persona si trova, in quel momento. Ci deve essere una distinzione tra l’idea di concettualizzare il problema come una parte necessaria data dalla natura del contesto esistenziale e patologizzare il problema in una forma cristallizzata all’interno del paziente. Tutto questo mi ricorda una parabola cinese tratta da “L’importanza di vivere” di Lin Yutang, su un vecchio, suo figlio e un cavallo: «Una notte scoppiò un temporale, un cavallo scappò dal recinto e corse via. Il figlio del vecchio gridò: “Padre, il nostro cavallo più pregiato è scappato! Com’è potuto succedere? Questo deve essere il giorno peggiore della nostra vita”. Il padre sorrise e rispose con calma: “È così? Ne sei proprio sicuro?”. All’alba il cavallo tornò portandosi dietro un buon numero di altri cavalli, e ora la famiglia dei contadini che era povera, si ritrovava con una vera mandria di cavalli. Il figlio felice esclamò: “Padre, il nostro cavallo ci ha portato più cavalli di quanto avessi mai pensato di avere! Questo è il grande giorno della nostra vita”. Il saggio padre sorrise e disse con calma: “È così? Ne sei proprio sicuro?”. La mattina seguente il figlio si alzò presto per cercare di cavalcare uno dei nuovi cavalli ma fu disarcionato e si ruppe una gamba. Esclamò: “Padre, mi sono rotto una gamba, non posso lavorare nei campi, possiamo perdere i nostri raccolti, ahimè, questo è il peggior giorno della mia vita”. Il padre sorrise e rispose con calma: “È così? Ne sei proprio sicuro?”. Scoppiò la guerra nello Stato e il governo mandò i soldati in tutti i villaggi per reclutare giovani da mandare alle prime linee. Giunsero alla casa del contadino per prendere il figlio, ma trovandolo con la gamba rotta lo lasciarono a casa e presero solo i cavalli. Dopo che i soldati lasciarono il villaggio con tutti gli altri giovani, la moglie del contadino esclamò: “Questo è il giorno più felice della nostra vita”. Il padre sorrise e rispose con calma: “È così? Ne sei proprio sicuro?”.» Quello che può apparire come il peggiore momento, apre la possibilità a qualcos’altro; allo stesso tempo, quei momenti in cui sembra che le cose stiano andando senza problemi, possono “deragliare” da un momento all’altro. Alla fine dei conti, una riflessione interessante è che non è importante ciò che interpretiamo ma ciò che può portare a generare nuovi eventi. Ciò che è utile in funzione della terapia va usato: i comportamenti che la persona porta all’interno dello studio non vanno contraddetti e non vi si deve lottare contro; è bene invece guardarli ed esaminarli, chiedersi come usarli e immaginare dei modi specifici funzionali alla terapia. Erickson, alla fine della sua carriera, affermò che per migliorare il modo di fare terapia era necessario divenire sempre meno controllanti. Ingaggiando una battaglia con il paziente con lo scopo di appropriarsi del controllo della situazione, non si fa altro che deviare l’energia dal processo di guarigione, e la persona perde la possibilità di scoprire le sue risorse interne e le capacità non ancora riconosciute.

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