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Immagine del redattoreElena Franzot

Dove c'è dolore c'è vita

Aggiornamento: 19 mar 2023

La sofferenza psicologica è intrinseca nella vita umana: l’evitamento o il tentato controllo dell’esperienza di sofferenza concorrano ad aumentare il dolore e a bloccare il processo di cambiamento.



Anche nel pieno di un tremendo dolore e di una grande sofferenza, esiste la possibilità di trovare significato, scopo, vitalità. Lo psichiatra Viktor Frankl, internato in diversi campi di concentramento, è un esempio suggestivo di quanto affermato: nel libro “Uno psicologo nel lager”, racconta come la tragedia del prigioniero possa divenire strumento di conoscenza dell’amore, dell’interiorità e persino dell’importanza dell’umorismo. Non solo. Nelle sue riflessioni Frankl riconosce la precarietà dell’esistenza umana, l’ineluttabilità della sofferenza e la capacità dell’uomo di accettarla in modo nobile e coraggioso. Frankl cita Goethe “Non esiste azione che non possiamo nobilitare sia agendo sia accettando” poiché “la sofferenza è la più grande dignità dell’uomo”. In parole più semplici, se ti cade il soffitto puoi vedere il cielo. Queste riflessioni sono molto interessanti perché scardinano quel che la nostra società tende a farci pensare: che la vita debba essere gioia e divertimento, serenità e soddisfazione, salute e benessere, in sostanza che la felicità equivalga a sentirsi bene attraverso l’evitamento della sofferenza. La conseguenza è che nella società occidentale si ritiene che la sofferenza mentale sia anormale, il prodotto di un qualche tipo di mal funzionamento della mente o causata dalle proprie debolezze. Se la sofferenza è causata da un nostro personale difetto allora dobbiamo rimproverarcene ed è altresì pensabile che tutti siano felici tranne noi stessi. Il risultato è una somma: a sofferenza si aggiunge sofferenza. La ricerca della felicità non risulta essere solo una tendenza più che comprensibile ma diviene un’ossessione sociale, che ci porta, per esempio, a sentirci in dovere di fare il pieno di emozioni positive e di eliminare quelle negative. Potrebbe sembrare una direzione sensata poiché chi vorrebbe avere emozioni spiacevoli? La risposta è banale ma la realtà necessariamente ci riporta ad un’atra prospettiva: le cose che nella nostra vita rivestono il ruolo più importante sono generalmente quelle che implicano sia sentimenti piacevoli sia sentimenti spiacevoli. Ad esempio, una relazione sentimentale stabile darà sensazioni stupende come l’amore e la gioia ma darà inevitabilmente anche delusioni e frustrazioni poiché il partner perfetto non esiste. Lo stesso vale per tutti i progetti importanti: ci danno energia ed entusiasmo ma comportano anche stress, paura, ansia. È dunque impossibile crearsi una vita migliore se non si è disposti a provare emozioni spiacevoli. Uno dei temi fondamentali di Laozi è proprio quello della complementarietà degli opposti: gli opposti si generano a vicenda e tendono a capovolgersi l’un l’altro. Non appena qualcosa viene posto come un dato, il suo opposto simultaneamente emerge: l’ossessione della bellezza è matrice della bruttezza, l’ossessione della virtù è la culla delle perversioni. Per gli antichi Cinesi ogni processo è ciclico, come l’avvicendarsi delle stagioni o del giorno e della notte. Il paradigma di questo avvicendamento è il ciclo dello yin e dello yang rappresentato dal diagramma del Taiji. Quando l’energia luminosa (yang) raggiunge il suo apice in seno ad essa comincia a svilupparsi il seme dell’energia oscura (yin) e viceversa: il mezzogiorno è il momento in cui comincia a far notte e la mezzanotte è il momento in cui il sole ricomincia a risalire verso l’orizzonte. Se non si prende consapevolezza della complementarietà e della ciclicità degli opposti, allora la fluidità del vivere viene ostacolata da ciò che necessariamente si deve porre in essere: il controllo sui propri pensieri, sulle emozioni, sulle situazioni. Per esempio, se dobbiamo evitare le emozioni negative e dobbiamo provare solo quelle positive allora dobbiamo essere o divenire capaci di controllare ciò che pensiamo e proviamo. È ovviamente possibile porre un certo grado di controllo su pensieri ed emozioni, ma non così tanto come talvolta viene proposto di fare con strategie psicologiche che promettono di scacciare via quanto di negativo. In genere queste cose richiedono un grande sforzo di arginamento e controllo della sofferenza con risultati temporaneamente positivi ma non risolutivi sul lungo termine. Quello che succede è che anche se tali emozioni se ne vanno, dopo un po’ ritornano, poi se ne vanno di nuovo e poi tornano ancora. Inoltre, man mano che il livello di sofferenza aumenta, la capacità di controllare le emozioni inversamente diminuisce. Controllare le emozioni è una cosa che ci viene insegnata o imposta fin da piccoli: è capitato tutte le volte che ci siamo sentiti dire “Non piangere”, “Non essere così triste”, “Non c’è niente di cui avere paura”, “Devi reagire” e via dicendo. Probabilmente ci sembrava che gli adulti fossero capaci di porre tale grado di controllo sulle proprie emozioni, ignorando che in realtà poteva non essere così. Chissà quante volte sarà capitato che a seguito di un “Non piangere, non c’è nulla di cui preoccuparsi”, lo stesso adulto passasse le sue notti a piangere ininterrottamente o si aiutasse con tranquillanti o soffrisse silenziosamente di gastrite! Che dovremmo essere in grado di controllare tutte le nostre emozioni è il messaggio passato anche implicitamente quando ci è stata attribuita una caratteristica che esclude la possibilità di avere delle debolezze e delle negatività dentro di noi. Questo è successo tutte le volte che siamo risultati bambini senza macchia, cioè “bravissimi”, “intelligenti”, “più grandi della nostra età”: come deludere i nostri genitori che ci amavano proprio quando davamo loro quello che volevano? Come sopravvivere esprimendo le proprie sofferenze Tesi di e fragilità se questo voleva dire perdere il loro amore? Non era proprio possibile. Questo non è tutto. Ad aggravare il peso della richiesta di controllo sono i due messaggi impliciti che essa porta con sé: la richiesta di comportarsi antiteticamente a ciò che si sente rappresenta la mancanza di conferma dello stato emotivo e dunque della persona stessa e produce l’avvilente sensazione di essere incompresi; la richiesta di controllo per cui dovremmo essere capaci di spegnere o accendere le nostre emozioni a piacimento, come se esistesse un interruttore, nella sua irrealistica attuabilità fa sentire sciocchi e inadatti. Ritenere il controllo come necessario può dipendere dal fatto che le persone intorno a noi sembrano apparentemente felici: solo con uno sforzo di decentramento, ossia cogliendo la prospettiva da cui un altro guarda a se stesso e al mondo, possiamo renderci conto che anche gli altri soffrono e gioiscono come noi. Questo è più difficile da sperimentare quando si soffre poiché c’è la tendenza a ripiegarsi su se stessi. L’altra faccia della medaglia dell’atteggiamento mentale di controllo è legata all’obiettivo di liberarsi da pensieri o emozioni negativi: se devo liberarmi di una certa sofferenza allora dovrò evitare l’esperienza che mi porta a tale sofferenza. Hayes et al. (1996) hanno affermato che l’evitamento esperienziale contribuisce allo sviluppo ed al mantenimento di diverse forme psicopatologiche. Certe esperienze interne, che includono emozioni (ad esempio ansia, paura, tristezza), pensieri (“Non vado bene”) e sensazioni fisiologiche (come ad esempio l’accelerazione del battito cardiaco o il rossore del volto) possono essere giudicate come patologiche e talmente minacciose da rendere inevitabile il tentativo di liberarsene ad ogni costo. In alcuni casi gli sforzi di controllo ed evitamento delle proprie esperienze interne hanno successo. Per esempio, tecniche di rilassamento o farmaci ansiolitici possono ridurre la propria ansia a breve termine. Tuttavia, i tentativi costanti di controllo di immagini spiacevoli, pensieri negativi, emozioni e sensazioni fisiologiche, per quanto altamente apprezzati e rinforzati nella nostra cultura, spesso si accompagnano ad un aumento paradossale della sofferenza psicologica (Gross & Levenson, 1997; Purdon, 1999; Roemer e Borcovec, 1994; Wegner, 1994). Il tentativo di controllo dei pensieri, per esempio, è una delle strategie disfunzionali che accompagna alcune forme di Disturbo Ossessivo- Compulsivo. Le idee relative al funzionamento mentale, per cui si ritiene che dobbiamo avere un controllo assoluto sui nostri processi mentali, fanno sì che la persona ossessiva giudichi le proprie esperienze interne come altamente patologiche, assommando quindi ai continui sforzi per allontanare i pensieri intrusivi tutta un’evidente serie di preoccupazioni, generando perciò un circolo vizioso. Il tentativo di tenere lontano dalla propria coscienza un pensiero negativo, paradossalmente, non fa altro che incrementarne la presenza (Salkovskis, Richards & Forrester, 1995) ed inoltre restringe il repertorio comportamentale dell’individuo. Queste restrizioni comportamentali sono talmente automatiche che la persona non è consapevole del ruolo che esse giocano nel perpetuare il disagio psicologico e l’insoddisfazione, nonostante sperimenti la sofferenza ad esse connessa. Espandere quindi il repertorio esperienziale dell’individuo con i conseguenti benefici in termini di qualità della vita è uno degli obiettivi terapeutici più importanti, ma per fare questo è normale che si possano provare esperienze interne negative. Può verificarsi un problema quando la persona interpreta la fase negativa come la prova del fatto che in lui ci sia qualcosa che non va o come un segnale che qualcosa nella vita debba essere modificato. Per esempio, quante volte si sente la frase “Se solo non avessi quest’ansia vivrei la vita che voglio!”: prendendo alla lettera questa frase l’unico modo per vivere la vita desiderata è quello di sbarazzarsi dell’ansia. Esiste però un’alternativa: portare il paziente ad accettare di provare l’esperienza interna negativa, considerandola come una sorta di effetto collaterale o di passaggio obbligato verso il soddisfacimento di ciò che gli sta veramente a cuore. Si tratta perciò di aiutare le persone a coltivare una relazione accettante e non giudicante nei confronti dei propri eventi interni (pensieri, immagini, sensazioni o emozioni) a considerarli come qualcosa di transitorio e magari anche insignificante, che non corrisponde necessariamente alla realtà, né tantomeno definisce la persona. La Psicoterapia Ipnotica appare come uno degli strumenti di gran lunga privilegiati al fine di raggiungere questo obiettivo.

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